In poche nazioni al mondo, il pensiero religioso ha avuto tanta forza di penetrazione e di potenza come in Etiopia…. Dal secolo quarto, in cui il Vangelo penetrò nel regno di Axum, fino ad oggi, tutta la vita degli Abissini è stata dominata dal pensiero e dalla dottrina di Gesù Cristo…

L’inizio del cristianesimo in Etiopia risale alla prima metà del IV secolo, come narra lo scrittore Rufìno di Aquileia (345-411) nella sua Historia Ecclesiastica, e coincide con la conversione del regno di Aksum. Quantunque non sia affatto facile stabilire la datazione esatta, è certamente vero, come riferisce lo stesso Rufino, che Frumenzio di Tiro, sbarcato sulla costa etiopica nei primi anni del 300, predicò il vangelo nel regno di Aksum per un ventennio convertendo innumerevoli aksumiti; com’è pure vero che, intorno al 345, il re Ezanà, la madre Sofia, la famiglia reale e l’intera corte si convertirono al cristianesimo. Profondamente stimato dal popolo aksumita, san Frumenzio passò alla storia col nome di Abuna Salama Kesetie Berhan (padre pacifico rivelatore della luce), mentre i due fratelli Ezanà e Sezanà diventarono nella tradizione etiopica Abrahà (colui che illuminò) e Atsbhà (colui che fece sorgere il sole): l’alba e la luce della nuova Etiopia cristiana.

Fin dai racconti dei primi esploratori europei la chiesa etiopica, di fatto una diocesi della chiesa d’Egitto, viene soprannominata “copta monofìsita” e i cristiani etiopi “copti”, ancorché tali termini non hanno alcun senso, dato che “copto”, termine divulgato dagli arabi dopo la conquista dell’Egitto, vuol dire “egiziano”. In realtà all’inizio del V secolo, grazie all’opera del monaco greco Eutiche, considerato il capo morale dei religiosi di Costantinopoli, in tutto l’Oriente si propagò la dottrina monofìsita, secondo cui la natura umana di Cristo era stata assimilata dalla natura divina, la sola destinata a sussistere. Ma dopo che, nel 451, il concilio di Calcedonia dichiarò Eutiche eretico, sancendo che in Cristo convivevano sia la natura umana che quella divina, alcune chiese orientali, fra cui quella egiziana, ricusarono tali conclusioni separandosi da Roma. Sebbene vada rimarcato che nessuna di queste chiese si riconosce con la dottrina strettamente monofìsita di Eutiche ma ritiene altresì che in Cristo vi sia una sola natura, al tempo stesso divina ed umana. Secondo alcuni studiosi, però, il cristianesimo etiopico sarebbe diventato monofìsita assai più tardi, portando a riprova il fatto che re Calèb, che regnò su Aksum nella prima metà del VI secolo, è tutt’ora festeggiato (27 Ottobre) come Santo dalla Chiesa Cattolica. In ogni caso, verso la fine del VI secolo, Aksum entrerà in declino e l’Etiopia sarà presto accerchiata dall’espansione islamica. «Attorniati da ogni parte da nemici della loro religione, gli etiopi dormirono per un migliaio di anni, dimentichi del mondo che a sua volta li dimenticò» scrive lo storico Gibbon.

Almeno fino all’arrivo dei missionari Gesuiti in Etiopia (XVI-XVII secolo) che, se da una parte, portò alla conversione al cattolicesimo, sia pure per breve tempo, degli imperatori Ze-Dinghìl e Sussinios, dall’altra, innescò nel clero etiopico delle dispute interminabili circa l’unzione e la natura di Cristo, dispute che sfociarono talvolta in lotte feroci e sanguinarie, con massacri e devastazioni di interi monasteri. E provocando così l’insorgere di due correnti teologiche: l’una sostenuta nei monasteri del Goggiam, la regione racchiusa dalla grande ansa del Nilo Azzurro, a sud del lago Tana; l’altra nel monastero di Debra Libanos nello Scioà. I primi, goggiamesi, sostenevano che Cristo non era unto dallo Spirito Santo, ma da se stesso, e che nell’unione con il Verbo la sua natura umana era stata assorbita da quella divina. Questa corrente, di rigido monofisismo “eutichiano”, prese il nome di carrà (coltello) ma anche di qebàt (unzione) o di hulèt liddèt (due nascite), poiché riconosceva in Cristo la generazione eterna e la sua nascita dalla Vergine. I secondi, debralibanesi,  sostenevano invece che Cristo era stato unto dal Padre tramite lo Spirito Santo, riconoscendo implicitamente nella unzione la natura umana di Cristo. Questa dottrina venne chiamata sost liddèt (tre nascite) in quanto, al contrario dei goggiamesi, rivendicava una terza nascita mediante l’unzione, oppure teuahdò (divenuto uno) perché sosteneva che la natura umana e quella divina si sono unite mediante l’incarnazione. Cristo ha assunto una natura composita di umanità e di divinità, divenendo contemporaneamente vero Dio e vero uomo.

D’ora in avanti la storia della chiesa etiope sarà perciò caratterizzata da un altalenante susseguirsi di contrapposizioni, talvolta cruente, per il prevalere dell’una sull’altra corrente, e solo l’ascesa al trono imperiale di Menelik (1889) porrà fine alle contese religiose, lasciando libera la scelta del culto e proclamando quella di Debra Libanos quale dottrina ufficiale della chiesa etiopica. Oggi la Chiesa etiopica, al pari delle altre Chiese orientali non-calcedonesi, come la siriana e l’armena, rifiuta il monofisismo e si dichiara miafìsita, intendendo con questo termine l’unione delle due nature di Cristo in un’unica natura composita. La denominazione ufficiale della Chiesa etiopica è Chiesa ortodossa teuahdò d’Etiopia.

Nei suoi diciassette secoli di vita la chiesa etiopica, nonostante le molteplici minacce ed invasioni esterne, è riuscita a conservare intatto il cristianesimo dei primordi. Secondo una definizione cara agli etiopi “l’Etiopia è un’isola cristiana in un mare di pagani”. In tutto il Paese si contano oltre 25 mila chiese, spesso riccamente decorate con immagini sacre bizantineggianti, come quelle rupestri di Lalibelà e di Gheralta, dove i buoni vengono sempre raffigurati frontalmente ed i cattivi di profilo. All’esterno di ognuna vi è sempre la bietelehèm (casa del pane), atta a preparare il pane per l’eucarestia, mentre alla sommità vi è la croce greca adornata di sette uova di struzzo, simbolo della passione e della morte di Cristo. Nelle chiese storiche più importanti sono poi conservati antichi manoscritti fatti con pelli di capra, testi sacri che raccontano la vita dei santi, vangeli e bibbie, trascritti in ge’ez, l’antica lingua etiopica sopravvissuta solo nell’odierna liturgia. Tra i testi etiopici, ad esempio, è stato rinvenuto il Libro di Enoch, irrimediabilmente perduto sia nella lingua originale aramaica che nella versione greca.