Da sempre ritengo che le immagini migliori siano quelle “scattate” con il terzo occhio, quello interiore; siano quelle che, fissate indelebilmente nella nostra memoria, pure a distanza di anni possiamo far riaffiorare (palinmnesi) riprovando la stessa sensazione di gioia o di dolore dell’originario, intimo sguardo. E sono sempre quelle che, a mio avviso, nessun apparecchio fotografico è in grado di catturare, incapace com’è di percepire e tantomeno impressionare il moto del cuore (eccitazione, turbamento, commozione) generato dalla loro visione. Premetto questo perché, ben sapendo che sul secolare e arcinoto “camino” si è detto di tutto e di più, nel compierne per la prima volta un buon tratto (da Pamplona a Burgos) in compagnia d’una dozzina di amici, ho preferito registrare talune significative immagini che qui e là hanno sorpreso/colpito l’allenato spirito dell’attento osservatore e, credo, degne di essere riportate qui, a guisa di vere e proprie cartoline, illustrate con l’ausilio e l’efficacia delle parole (*). Spero di esservi riuscito.

CICOGNE. Sapevo che in Spagna, come pure in Portogallo, non è insolito imbattersi nei grandi nidi che questi splendidi volatili prediligono costruire sul comignolo di un camino, sul campanile di una chiesa o sul basamento aereo di un traliccio dell’alta tensione, oltretutto, specialmente nella stagione estiva, ravvivati dalla presenza dei piccoli. E come non restare attoniti alla vista d’un bellissimo esemplare che dal nido s’è improvvisamente librato in volo proprio sopra la mia testa, oscurando per un (lungo, interminabile) momento la stretta luce della stradina di un centro abitato che ci si apprestava ad attraversare? Non so quanti di voi, da adolescenti, hanno avuto la ventura di sdraiarsi sul prato al limitare della pista d’un aeroporto per rimirare da vicino la pancia dei giganteschi aeromobili appena decollati: ebbene, seppure a distanza di parecchi lustri, la sensazione di meraviglia è stata verosimilmente la stessa.

VALLATE DELLA RIOJA. Questa regione, nota come la tierra del pan y del vino (simboli eucaristici), è caratterizzata da vaste e sconfinate vallate con enormi appezzamenti destinati soprattutto alla coltura del grano e della vite. In pratica è come ritrovarsi nel bel mezzo di un tranquillo mare verde-oro, interrotto solo dalla distante cornice di montagne azzurre come il cielo, dove lo sguardo si lascia volentieri naufragare per tornare, rigenerato, a soffermarsi su quei particolari sfuggenti a tutta prima eppure così emblematici, sia per la geometria che per i contenuti del quadro d’insieme. Per cominciare, l’apposita potatura dei giovani tralci di vite che compongono gli innumerevoli filari, così da farli crescere piuttosto bassi per sopportare meglio l’impetuosità dei venti (il poniente dell’Atlantico e la tramontana dei Pirenei) che, soprattutto in primavera ed autunno, flagellano la zona; e poi, la meticolosa defoliazione manuale della parte alta del graspo per consentire un’uniforme maturazione degli erubescenti grappoli d’uva.

DAINI. Confesso che, avendo sin qui osservato da vicino solo un esemplare maschio da poco stroncato da un malanno, il ripetuto incontro (ben due volte in pochi giorni) con questo magnifico e timido cervide mi ha particolarmente entusiasmato. La prima occasione si è presentata in una tarde assolata allorquando, di rientro in compagnia di un (vecchio) amico di Roma appassionato di fotografia, sulla lunga e tormentata sterrata che dalla provinciale appena fuori Viana conduce all’ipogeo megalitico di Longar (da notare, poco più in alto del sito funerario di oltre 4.500 anni fa, l’altare rituale formato da tre grandi lastre sovrapposte in pietra rozzamente tagliata e levigata), vediamo correre proprio davanti a noi e per una buona manciata di secondi tre femmine di daino prima di inoltrarsi nella boscaglia. L’altra si propone mentre, camminando lungo il sentiero di una ventosa valle della Castiglia-León, mi trovo a volgere distrattamente lo sguardo a destra, in direzione d’un campo di grano appena mietuto: quale sorpresa nell’avvistare a poche centinaia di metri un grosso daino (sempre femmina) che, dapprima, sembra indugiare con il muso in giù incurante della mia presenza, e poi, d’acchito, comincia a saltellare con disinvolta leggerezza guadagnando in fretta l’altura antistante.

CHIESE. Sono da sempre un appassionato cultore dell’arte e dell’architettura medievali che, a mio avviso, raggiungono la massima espressione nel romanico, sia quando questo stile proprio della cultura latina mutua l’iconografia musiva di quella bizantina (alto medioevo) e sia, soprattutto, quando a partire dal Duecento assurge al sublime mettendo in luce quella purezza delle forme così appropriata/funzionale ad un edificio sacro, ad una domus Dei. Perciò, quantunque non prediliga la sontuosità e il virtuosismo del gotico – peraltro, di matrice nordica quindi estraneo alla nostra cultura – e meno che mai l’esasperato, tronfio e decadente simbolismo del barocco, e pure avendo per certi versi apprezzato le varie e interessanti architetture religiose presenti lungo il percorso: dal plateresco (un sorta di gotico spagnolo frammisto all’arabo) chiostro del monastero di Santa María la Real di Nájera alla monumentalità tardogotica, qui e là manierista e baroccheggiante, della cattedrale di Burgos, non sorprenderà più di tanto se affermo di essere stato particolarmente colpito/rapito dall’enigmatico romanico della piccola chiesa del Santo Sepulcro di Torres del Río, la cui singolare armonia delle forme, pure avocando a sé forme dell’arte ispano-araba (volta a nervature incrociate), cistercense (ampio respiro e sobrietà delle linee) e templare (pianta ottagonale), tende al raggiungimento della perfezione architettonica come in pochi altri esempi del genere presenti in Navarra (tra tutti, l’Ermita de Eunate).

PELLEGRINI. Nella tarda e calda mattinata del terzo giorno, prima di accingerci a superare il lungo tratto (12 km) privo di fonti e di centri abitati che ci separava da Los Arcos, ci eravamo fermati per una breve e salutare sosta di approvvigionamento a Villamayor de Monjardin che, alla stregua degli altri, è un villaggio di pochi casoni lindi e pinti (cari a Hemingway che, più d’una volta, vi ha soggiornato) raccolti tutt’intorno ad una chiesetta e all’apparenza assonnato, quasi privo di vita, fatti salvi il piccolo bar e il negozietto tuttofare sempre aperti e a disposizione dei pellegrini, loro unica e vitale risorsa. Mi ero quindi appartato a sorseggiare un fresco zumo de naranja in una zona d’ombra dove già sostavano altri pellegrini, quando il mio curioso ma discreto sguardo viene attirato dalla figura minuta d’una ragazza accovacciata sull’antistante panchina che, volgendosi casualmente verso di me, mostra il grazioso e fanciullesco ovale del viso contornato da un caschetto di capelli dorati. Avvicinandola appuro che era francese, d’un paesino della Provenza, e che, assieme al compagno – mi addita un giovane alto e segaligno che, poco in là, stava placidamente appoggiato ad un albero –, intendeva proseguire fino a Santiago de Compostela. Dunque, au revoir ma cherie. Ma nel salutarla non potevo di sicuro immaginare che l’avrei rivista così presto.

Infatti, dopo alcune ore di cammino, compiute per lo più lungo l’altalenante sentiero ricavato in uno spartiacque argilloso che senza soluzione di continuità attraversa paesaggi sempre più assolati e desolanti, mentre ci stavamo rifocillando in una di quelle provvidenziali oasi di descanso per i pellegrini, messe su alla buona dall’iberico estro, con gazebo, sedute e bevande ghiacciate, grande è stato lo stupore nello scorgere in lontananza una minuscola sagoma che, forse a causa dello zaino così grosso da sovrastarla oppure per il caldo torrido del pomeriggio (ben oltre ai 40°), avanzava barcollando vistosamente. Inforcato il binocolo inquadro e riconosco subito la povera, zigzagante francesina che rischiava un mancamento da un momento all’altro e, un po’ staccato dietro di lei, l’imperturbabile e indifferente “compagno”. A questo punto, mosso da un istintivo afflato di tenera e paterna solidarietà, dopo averne più volte richiamato l’attenzione invitandola a fermarsi, stavo per andarle incontro, per soccorrerla: quand’ecco il nostro trattenerla bruscamente intimando con inequivocabile fraseggio francese di non rompere …. e di andare avanti; e lei, sia pure con una certa riluttanza, seguirlo di buon grado. Mah, chissà quale recondita ragione spinge una coppia così male assortita e povera-di-spirito a intraprendere un simile viaggio. In ogni caso – mi sono detto –, buen camino e che Sant’Iago li assista!

(*) Le foto impaginate sono di repertorio e servono solo a rendere più dinamico e fruibile il testo.

Una buona parte della simpatica ed eterogenea compagine di camminatori (da sinistra: Ermanno, Giuliana, Ornella, Lorenzo, Alberto, Marie-Christine, Odisseo e Anna Rosa).