E’ stato definito in vari modi: terra di mezzo, ultimo paradiso, regno della felicità, paese da fiaba. Per me il Bhutan è il paese della perfetta armonia tra i pochi abitanti e la preponderante e mistica natura, e per certi versi è anche il tópos dell’ultima utopia verosimilmente compiuta. Quando si giunge all’aeroporto di Paro, uno dei pochi al mondo in cui ancora si atterra a vista, il Bhutan ti accoglie, e ti sorprende, con un silenzio ed una quiete assordanti. Nessun vociare, non il fastidioso suono d’un clacson o d’una sirena ma solo il tran-tran ordinatissimo della gente che si muove a piedi, in moto o in auto lungo le strade della cittadina. Insomma, d’acchito, si ha l’impressione di trovarsi catapultati in un luogo sospeso in un tempo/spazio indefinito, ancorché visibilmente incastonato tra gli alti picchi ed i ghiacciai perenni della catena himalayana; in un mondo che all’apparenza sembra disinteressarsi di ciò che accade al di fuori dei suoi confini, gelosamente ancorato com’è all’intreccio inesplicabile di storie e leggende che caratterizza la cultura profondamente buddhista (“La pace viene da dentro; perciò non cercarla fuori”, Siddharta di H. Hesse); in una natura di struggente bellezza, dove foreste pluviali di alti fusti, inframmezzati da giganteschi rododendri rossi, rosa e bianchi, si alternano a rigogliose vallate solcate da fiumi e dotate di arditi e degradanti terrazzamenti per la coltivazione del riso.
E’ il Paese che, denegando stili di vita e modelli di sviluppo propri del mondo cosiddetto progredito, ha preferito perseguire la ricerca della felicità, una sorta di benessere più mentale/psichico che materiale solidalmente condiviso dalla collettività a prescindere dalla condizione sociale; e che solo alla fine degli anni Novanta ha timidamente deciso di uscire da un lungo medioevo aprendo all’elettricità, alla TV via cavo, alla telefonia mobile, a internet, al turismo (40-50 mila presenze all’anno rispetto agli sparuti gruppi di curiosi turisti degli anni Settanta-Ottanta in cerca di esotismo ed esoterismo). Ed è lo stesso Paese che, pressoché ultimo al mondo, tenta strenuamente di preservare la propria cultura dalle influenze esterne e dalla globalizzazione imperante, con il divieto di importare e vendere tabacco e superalcolici, con l’uso per legge degli abiti tradizionali sin dalla tenera età per evitare/limitare lo smercio nei mercatini di jeans e t-shirt di stampo occidentale o made in China, con la totale assenza di ogni forma di pubblicità (cartelloni, poster, volantini, ecc.), con l’uso corrente della lingua ufficiale, lo dzongkha, sia pure ultimamente affiancata dall’inglese (obbligatorio a partire dai 6 anni).
Ma il Druk Yul o terra del drago tonante è anche il Paese delle contraddizioni. In una striscia di terra grande quanto la Svizzera e stretta all’ombra di due giganti come la Cina e l’India, 750 mila persone vivono con appena 200 dollari al mese; nonostante sia un Paese indubbiamente povero (le uniche risorse sono l’energia idroelettrica ed il legno delle grandi foreste) non vengono imposte tasse o tributi, se non per talune attività agricole, e l’assistenza sanitaria e l’istruzione sono gratuite; lo sport più diffuso è il tiro con l’arco, ma il Bhutan vanta anche una nazionale di calcio sia pure all’ultimo posto nella classifica FIFA; la pornografia è bandita, ma sulle facciate delle case compare spesso dipinto un enorme fallo, simbolo apotropaico di fertilità; il numero dei monaci supera di gran lunga quello dei soldati; i bhutanesi non possono scambiarsi baci o altre effusioni d’affetto in pubblico ma possono avere quattro mogli o mariti; l’omosessualità non solo è illegale ma è addirittura inconcepibile, pur tuttavia si ha ancora paura delle sirene che dormono in fondo ai fiumi (!); non vi sono animali considerati domestici o tenuti al guinzaglio, e i tanti cani che pure vivono liberi e paciosi sono assistiti/protetti come un bene comune.
Gli dzong e le ruote di preghiera.
Le ruote di preghiera, vero e proprio mantra buddhista, contengono dei testi sacri scritti all’interno e quando si fanno girare è come recitare la preghiera in assoluto più completa. Non si fermano mai e si trovano un po’ dovunque, in basso ed in alto, ma soprattutto negli dzong. Come quelle due grandi che precedono il bellissimo ponte levatoio in legno per l’accesso allo splendido dzong di Punakha, strategicamente posto alla confluenza dei due fiumi (Mo Chhu, madre, e Po Chhu, padre) dietro l’abbacinante lilla di alcuni grandi alberi di jacaranda e accompagnato da giganteschi e pullulanti alveari che, agitati da un ininterrotto movimento d’ali, si contraggono e si espandono offrendo un vero spettacolo della natura “amica” del Bhutan. Il Punakha Dzong, immortalato dal maestro Bernardo Bertolucci nel suo “Il piccolo Buddha”, sicuramente l’esempio di monastero fortificato più imponente e rappresentativo del Bhutan, è una delle maggiori attrazioni del Paese assieme al Chimi Lhakhang, il tempio della fertilità, dove si recano le coppie che non riescono ad avere figli, ed al Taktsang o tana della tigre, il monastero magicamente arroccato su un dirupo a 900 metri dalla sottostante valle, cui si giunge dopo aver percorso un lungo e tortuoso sentiero (da quota 2.600 a 3.200 m/slm) in mistica e purificante salita. Perché, come amava ricordare T. Terzani, “Solo nella salita c’è speranza. E’ difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, e ti tiene all’erta”.
Bellezza, gentilezza e dignità di un piccolo popolo.
E non posso concludere senza menzionare taluni aspetti d’un popolo che hanno colpito la mia pure avvezza sensibilità d’osservatore. Per cominciare l’esotica leggiadria delle donne bhutanesi, elegantemente avvolte negli abiti tradizionali, con occhi lievemente mandorlati e senza un filo di trucco, la figura agile, snella e flessuosa, e sempre pronte a regalarti quel sorriso smagliante ed accattivante che viene dal cuore: un gesto autenticamente schietto capace di sedurre ed affascinare chiunque. E poi la decorosa dignità dell’ultimo dei poveri vegliardi che si può incontrare, lungi dall’ostentare la propria condizione come strumento di compassione ma anche in questo caso dispensando uno schivo ma gentile sguardo all’estraneo di passaggio. Infine la grande tolleranza dei monaci buddhisti, rispettosi della regola non scritta che l’ospite è sempre “sacro” e perciò gradito, tanto da invitarlo a partecipare alle loro preghiere e ringraziarlo all’uscita dal tempio con un’offerta di frutti.
Ecco, questo è il Bhutan, terra di miti e di antiche credenze cui ci si aggrappa per avere più fiducia nel domani. Dove la felicità (quella sorta di riuscito amalgama tra serenità, pace e armonia) deriva dal non avere poco né volere troppo: basta accontentarsi. E’ sicuramente questo il Paese dell’ultima, possibile utopia. Ma per quanto potrà resistere?
Odisseo